“Se lo psicoterapeuta deve poter custodire il silenzio, è perché attribuisce un valore assoluto alla parola del paziente”
Jacques Lacan

Nella mia professione utilizzo strumenti di diversa natura, cercando ogni volta di trovare le soluzioni più adatte alla persona che ho di fronte: colloquio, tecniche espressivo-immaginative, rilassamento psicofisico profondo, etc. Una scelta che tiene conto di diversi aspetti: la mia preparazione personale (fatta di studio e, soprattutto, di esperienza), le intuizioni terapeutiche che ogni incontro mi regala e le specifiche inclinazioni di ogni singolo cliente; sentirsi a proprio agio è, infatti, il primo passo per aprirsi all’altro in maniera spontanea e fiduciosa.

Per utilizzando strumenti diagnostici, non faccio diagnosi nel senso proprio della parola, in quanto non ho interesse a etichettare qualcuno inquadrandolo in una categoria piuttosto che in un’altra. Quel che mi affascina dell’incontro con l’altro è la possibilità di risalire al senso del disagio che porta. Cosa racconta quel disagio? Quale linguaggio utilizza? diretto, metaforico, allusivo? E a quale scopo?

I sintomi fisici, così come quelli psichici (malessere, noia, indifferenza, apatia…), veicolano sempre un messaggio che chiede di essere ascoltato; accoglierlo e integrarlo nella storia di ciascuno permette di comprendere, elaborare e andare oltre. Si tratta di una comprensione non solo cognitiva, che arriva a interessare aspetti più sottili – e per questo più impalpabili – della condizione umana, legati all’anima e al potere trasformativo che le è proprio. Se proviamo a riflettere, ci accorgiamo che liberarsi di un problema non equivale quasi mai a trovare la soluzione quanto piuttosto a superarlo: se evitiamo di interferire col processo in atto, se smettiamo di opporci al cambiamento in corso, molto spesso il problema si risolve da sé.

Come dicevo, non faccio diagnosi in senso stretto ma affianco agli altri strumenti del mestiere la cosiddetta diagnosi terapeutica, processo nel quale i mezzi impiegati divengono parte integrante del percorso di cura. Che mi affidi a un colloquio o somministri un test, l’obiettivo è sempre quello di favorire nel mio interlocutore un movimento trasformativo che consenta a lui/lei, in prima persona, di:

  • accrescere la consapevolezza personale;
  • cogliere associazioni tra eventi passati, presenti e aspettative future;
  • individuare atteggiamenti, schemi di comportamento e dinamiche relazionali (proprie e altrui) che ostacolano il proprio percorso evolutivo.

Si tratta di importanti occasioni per fare luce su di sé, per rileggere e risignificare le esperienze vissute e guardare così, con occhi nuovi, alle possibilità future; del resto ri-conoscere significa semplicemente conoscere di nuovo, cogliere aspetti che in precedenza ci erano sfuggiti, assegnare valore e significati differenti a ciò che sapevamo o credevamo di conoscere.

E’ in questo processo di riconoscimento che si gioca la partita, tutta la partita, quella di chi intuisce che nulla succede per caso e ogni evento, persino il più drammatico, racchiude sempre il seme di un’occasione futura.